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06 December 2012

Il vino sfuso da Eataly Roma



Lungi da me dare giudizi su Eataly, la Corazzata delle Eccellenze e del Gusto made in Italy.

Come ogni iniziativa ha sicuramente aspetti positivi ed altri un po’ meno ma confido sempre nel discernimento del pubblico nel valutare pro e contro.

Voglio invece attirare l’attenzione sulla presenza del vino sfuso nella parte che Eataly Roma dedica ai vini.

Non voglio parlare della qualità dei vini sfusi proposti in quella sede. Non li ho assaggiati e non posso dare nessuna valutazione. Non mi piace neppure giudicare in malo modo aprioristicamente un vino solo perché è sfuso. Sarebbe infatti un gravissimo errore.


Per esperienza personale infatti, girando per vignaioli e cantine, mi è capitato di imbattermi in vini sfusi di buona qualità; in alcuni casi ho avuto il piacere di sorprendermi assaggiando vini sfusi di cui mai avrei immaginato le potenzialità.

In un caso poi ho avuto la fortuna di incontrare una malvasia sfusa di un’azienda del beneventano realmente sorprendente, di gran livello, superiore a gran parte dei vini bianchi imbottigliati presenti sul mercato italiano.

Quindi ciò che critico negativamente non è il vino sfuso offerto da Eataly Roma ma la sua presenza stessa all’interno di Eataly Roma, che lo presenta e vende nel corner dedicato a tutti gli altri vini ben etichettati ed imbottigliati.

Eataly dovrebbe rappresentare un palcoscenico privilegiato dove dare bella mostra delle eccellenze enogastronomiche del suolo patrio. Tutto ciò a vantaggio sia del consumatore italiano che, ad esempio, invece di fare un centinaio di chilometri per acquistare un caprino di qualità, se lo trova già bello e pronto nel banco formaggi, sia del turista – cosa credo essenziale nella strategia di Eataly Roma – che ha a portata di mano mille prelibatezze da gustare e magari pubblicizzare al suo ritorno a casa.

Solo che il vino sfuso non è eccellenza, non rappresenta e non ha mai rappresentato il meglio di ciò che l’Italia enoica può produrre, anzi spesso il peggio.

Il vino sfuso è indissolubilmente legato ad un bere di anni fa – anche se se ne producono quantità industriali ancora oggi – quando si badava solo alla quantità, quando il vino era un vero e proprio alimento per il contadino e più che consumarsi consapevolmente in un wine-bar assaggiandone le diverse annate, cercando di comprenderne qualità e caratteristiche, si beveva per nutrirsi, per apportare utili calorie al proprio corpo. Ed in questo la qualità non c’entra proprio nulla.


Il vino sfuso era il risultato di un’dea di vigna che doveva solo ed unicamente produrre, fare centinaia di quintali di uve per ettaro; solo la quantità era il vero Dio.

Ciò che si otteneva era evidentemente molto lontano da ciò che per noi oggi è un vino di qualità.

Il vino di qualità è un vino frutto di cure attente nei riguardi della vite che deve avere una produzione limitata per poter esprimere al meglio le proprie peculiarità e che non deve essere “munta” come una vacca frisona – che tra l’altro dovrebbe essere allevata in tutt’altro modo - , per farle produrre 300/400 quintali per ettaro.

Il vino di qualità si fa in un vigneto di qualità, in un territorio curato e non vilipeso da continui trattamenti chimici o sottoposto a massacranti “torture” con antiparassitari.

Il vino di qualità dovrebbe essere solo accompagnato in cantina, tenuto per mano, affinché possa dare alla luce tutto ciò che di bello hanno fatto clima, tempo, attesa, attenzione del vignaiolo senza spazio a stregonerie e pozioni magiche dell’enologo di turno.

Il vino di qualità è un vino complesso, fine, fiero, sincero messaggero di un territorio, di un’idea, di una fede.

E’ questo il vino che Eataly Roma dovrebbe commercializzare, non il vino sfuso, retaggio di ciò che da sempre è lontanissimo dalla qualità.

So benissimo che le strategie commerciali seguono i propri canali, ma se si lavora sull’eccellenza non si può al contempo proporre lo sfuso e se invece lo si fa, allora si deve lavorare su una piattaforma diversa.

Ops…, a volte dimentico di essere in Italia. Beh, noi qui possiamo fare tutto, anche stare con un piede in 2 staffe, o meglio, stappare 2 bottiglie allo stesso tempo con un solo cavatappi….

Alla fine è solo questione di marketing.











29 November 2012

Un vino “moderno” che non c’è più







































Qualche giorno fa, ho sacrificato sull’altare di casa mia – che non è altro che una penisoletta dove quotidianamente s’incontrano amorevolmente cibo e vino - l’ultima bottiglia di un vino che mi ha emozionato fin dai primi assaggi.


La vittima del sacrificio è stato il Valpolicella Superiore Monte Paradiso ‘97 dell’Azienda Agricola Baltieri (Mizzole -VR).

L’uvaggio è il solito, Corvina, Rondinella e Molinara in percentuali che possono variare in base all’andamento delle diverse annate.

L’unicità di questo vino è che stiamo parlando di un Valpolicella che, per quanto sia Superiore, ha 15 anni d’età e questi anni, credetemi, se li porta ottimamente, oserei dire in maniera straordinaria.

Il Valpolicella da sempre è stato considerato un vino da consumarsi nell’arco di qualche anno, certamente non destinato a lunghi invecchiamenti che invece contraddistinguono il vero re di quelle contrade, l’ Amarone.

Qui invece siamo di fronte ad un Valpolicella Superiore che è cresciuto in valore, in carattere ed in personalità di anno in anno abbattendo miti, credenze e false verità.

Al naso si presenta con una grande ricchezza e complessità di profumi che spaziano dalla marasca sotto spirito a note cioccolatose e di spezie dolci.

Ma certamente è in bocca che questo vino sorprende ancor di più.

E’ minerale, graffiante, molto sapido; una sapidità quasi sanguigna, ematica che sostiene una struttura ricca, densa, sostanziosa e succosa. Un vino ancora molto vivo dopo 15 anni con una bella freschezza a renderlo agile, vibrante, bevibile. Un vino che non stanca mai.

È uno di quei vini che potrebbe a pieno fregiarsi dell’appellativo “moderno” ove per moderno s’intende un vino poco alcolico, fresco, bevibile quotidianamente.

Ma, a mio avviso, questa definizione sarebbe troppo limitante per il nostro Valpolicella.

È un vino sicuramente attuale ma la sua modernità risiede nell’antica saggezza di chi l’ha concepito, del suo papà, del vignaiolo che con il cuore e la testa gli ha dato la vita.

Un vino quindi non solo di tradizione, ma neppure solo moderno. Direi semplicemente un grande Valpolicella Superiore come non ce ne sono e forse non ce ne saranno più.

Per me era l’ultima bottiglia di pochissime in mio possesso e questo Valpolicella – notizia ferale – purtroppo non è più in produzione da qualche anno.

L’azienda ha deciso di dedicarsi in toto all’Amarone ed al suo fratello dolce, il Recioto.

Ciò che ancora c’è di Valpolicella viene venduto come vino sfuso e questo è significativo di una tradizione radicata nel veronese che interpreta proprio il Valpolicella come vino di tutti i giorni, immediato, facile, da bersi senza farsi molti problemi di affinamento o invecchiamento.

Questa era ed in parte è ancor oggi, la consuetudine locale nell’interpretazione del vino Valpolicella.

Ecco perché imbattersi in un Valpolicella Superiore di 15 anni che ancora sgambetta come un bambino, è una esperienza da condividere perché rappresenta semplicemente un “unicum”.

Resta il rammarico per non aver più la possibilità di seguirlo negli anni, per aver perso un grande protagonista di quel territorio.

Tuttavia è viva la speranza di incontrarlo di nuovo un giorno, magari frutto di un saggio ripensamento del viticoltore desideroso di far rivivere un vino che in passato tanto ha parlato di quella feconda terra che cinge Verona.

In bocca al lupo quindi, vignaiolo Baltieri, ed un caro arrivederci al suo Valpolicella Superiore Monte Paradiso.










28 November 2012

Passeggiata in Friuli - novembre 2006

da una piccola bozza ripescata in uno dei cassetti di casa.... anzi no, nella chiavetta usb


Mi sveglio di buon’ ora. Sarà una giornata lunga, quella di oggi.


Ad accogliermi, un sole caldissimo che mi coccola dolcemente quasi volesse darmi il buongiorno; cosa assai piacevole, visti i freschi respiri di un' aria che mi ricorda di essere ormai nel mese di novembre.

Sono a Nimis, terra di Ramandolo, un vino che mi ha stregato e tenuto spesso compagnia in queste giornate. Salgo in auto, prendo la statale 356 in direzione di Cividale del Friuli. Lo scenario naturale che mi circonda è splendido. Alberi carichi di cachi, quasi antichi custodi vestiti d’arancio, lasciano presto il campo all’unico solo protagonista di queste terre, il vigneto.

La vite inizia a fare la sua comparsa con delicatezza, quasi a voler nascondere una presenza che di lì a poco diverrà totale. Poi, attraversato il paesetto di Attimis, vengo letteralmente ingoiato da filari schierati come guerrieri pronti alla battaglia. Sembrano osservarmi da ogni dove. Coprono tutto, ogni collinetta, ogni declivio, ogni spazio potenzialmente coltivabile.

E’ il vero trionfo della viticoltura friulana.

Su queste colline è lei l’indiscussa signora. Padrona incontrastata del paesaggio, splendidamente pettinata ai raggi del sole, fa bella mostra di sé, immersa in un azzurro quasi irreale, protetta alle spalle dalle Alpi Giulie, che la tutelano dalle freddi correnti del nord. In questo microclima, nasce, cresce e, grazie ad una cura quasi maniacale, che solo i vignaioli di qui sanno donarle, dà vita a prodotti di qualità assoluta.

Arrivo a Togliano e poi è la volta , finalmente, di Cividale, l’ antico Forum Iulii (da cui l’origine del nome Friuli) fondato proprio da quei legionari romani che scelsero di stabilirsi nei Colli Orientali riconvertendosi in coltivatori ed, in particolare, in vignaioli, continuando quindi una tradizione già viva ai tempi dei Celti.

Oggi, vado a far visita ad un mio amico di Prepotto, Michele, conosciuto qualche tempo fa in una degustazione di più di 300 etichette a Triste. La prima volta, i suoi vini furono per me una bellissima sorpresa. E non parlo degli internazionali, ma degli autoctoni anche se sulla parola “autoctono” sono state aperte infinite discussioni. Comunque, mi riferisco a Refosco dal Peduncolo Rosso, Schioppettino, Ribolla Gialla, Tocai Friulano, e, ad uno splendido Verduzzo Dorato.

Michele mi accoglie con un calore tipicamente friulano, quel calore che viene fuori solo alla distanza, quando il vignaiolo di queste contrade si lascia alle spalle la ritrosia tipica del “furlan” e, accompagnando le parole con un bel tajut de vin, inizia a raccontare la vita del suo figlio più caro, la vigna.

E allora, chiacchierando, decidiamo di fare visita a quel figlio. Ci arrampichiamo per la collina, la sua collina, la collina di Michele, coccolata giorno e notte, sotto il sole come sotto la pioggia, nel freddo invernale come nelle risplendenti giornate estive.

Non posso fare a meno di accarezzare le viti, scure, nervose, vissute.

Esse sono l’inizio, esse generano il tutto, tracciano una via che il bravo vignaiolo deve solo seguire, interpretandone il significato, ma non mutandolo o stravolgendolo.

Passo dopo passo, circondato dai vigneti, mi sembra quasi di coglierne i versi, le suffuse parole. Ho quasi l’impressione che si muovano, che si agitino, che mi accolgano per narrarmi la propria vita.

Rientriamo dopo un’oretta. Ci sediamo e apriamo tre bottiglie di tre annate successive di quello Schioppettino che tanto aveva colpito il mio cuore, la prima volta.

Proprio un bel vino, splendido colore, contraddistinto all’olfatto da una nota vinosa che, via via con gli anni, lascerà spazio a sentori decisamente più maturi, più definiti, più speziati. E poi, una bellissima sapidità, che solo questo terreno può regalare, terreno di marne ed arenarie, terreno fortemente minerale. E questa mineralità si ritrova sempre, immobile, presente, immutata. Uno Schioppettino da bere giovane ma che con gli anni diventa più interessante, più adulto, quasi più saggio.

Poi….l’altra mia passione, il Verduzzo Dorato. Un amore a prima vista, potrei definirlo. Un vino che pochissimi conoscono e che, ogni volta, meraviglia, lasciando dietro di sé “morti e feriti”, perché tutti si aspettano il solito vino dolce.

Ed invece, qui siamo di fronte a qualcosa di diverso. Un vino ottenuto da uve Verduzzo, le stesse che danno vita al Ramandolo, un vino che non è mai dolcemente “ruffiano”, non è mai stucchevole, grazie ad una carica acida che ne sostiene sempre la struttura. Un vino che sa di miele ma che non stilla lacrime smielate, anzi, mostra una sottile nota tannica che lo rende unico, speciale, inconfondibile. Un bel bere!

Una giornata di assaggi, di infinite parole, di condivisione di emozioni e sensazioni.

Una giornata vissuta alla ricerca di un benessere non solo gustativo ma più intimo, quasi spirituale.

Dopo questa giornata con il mio amico vignaiolo friulano, riparto con la tristezza in me dominante, carico di sapori, umori, colori.

Riparto colmo di vino nella testa ma, soprattutto, nel cuore.

Questo è il mio Friuli, quel Friuli che è in grado di emozionarmi, quel Friuli che porto dentro sempre. E, detto da un romano, potete assolutamente crederci.